Wilder Mann
La Galleria del Cembalo apre al pubblico, dal 6 febbraio al 28 marzo 2015, una mostra che presenta, per la prima volta in Italia, le fotografie della serie Wilder Mann
L’uomo mascherato, oggi. ‘Selvaggi’ di tutta Europa in settanta fotografie del ritrattista francese che esplora riti e tradizioni ancestrali nel vecchio continente
I ritratti fotografici e, in particolare, quelli di soggetti in uniforme – di qualsiasi tipo essa sia – sono da sempre la materia del lavoro di Charles Fréger.
Il fotografo francese – alla Galleria del Cembalo dal 6 febbraio al 28 marzo con la mostra Wilder Mann – rivolge la sua attenzione a comunità presso le quali l’abito riveste un ruolo di primissimo piano, siano esse di militari, oppure di sportivi, o ancora di scolari, religiosi o teatranti.
L’insieme del suo lavoro di rigoroso ritrattista descrive quasi un’antropologia dei costumi, mai disgiunta dagli usi, dalle pratiche umane.
Così accade per la serie Wilder Mann, con cui Fréger esplora da tempo riti e tradizioni europee in cui l’abito diventa maschera, travestimento, incarnazione del mito.
Ispirate a una concezione ciclica dell’esistenza, queste mascherate tradizionali si tengono ogni anno, particolarmente in inverno, in quasi ogni angolo d’Europa. La ricerca di Fréger ha toccato così Austria, Bulgaria, Croazia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia – Sardegna e Alto Adige in particolare –, Macedonia, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Scozia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svizzera, Ungheria e, più di recente, Inghilterra e Irlanda.
Nelle settanta fotografie della mostra vediamo, dunque, uomini che sono entrati nella pelle del ‘selvaggio’ – il ‘wilder mann’ è, secondo la leggenda, il frutto dell’unione tra un orso e una donna – diventando fantoccio di paglia, diavolo, mostro dalle mascelle d’acciaio.
Personaggi umani e maschere zoomorfe – capra, cervo, cinghiale e naturalmente orso – compongono una sequenza che, se da un lato colpisce per la straordinaria diversità delle trasformazioni, dall’altro vede affiorare in certi elementi ricorrenti – pelli, campane, bastoni, corna – una sorta di ineffabile trasversalità, parzialmente misteriosa e non certo riconducibile agli aspetti più recenti della cosiddetta globalizzazione.
“L’uomo selvaggio non ha mai smesso, nel corso del tempo, di sparire e riapparire. Si è deformato, trasformato, è cresciuto, rimpicciolito, ora con tanti capelli, ora calvo, è il Bene, è il Male”. Questo scrive Robert McLiam Wilson nel testo che apre il volume “Wilder Mann – O la figura del selvaggio”, edito in Italia da Peliti Associati, che raccoglie le fotografie di Fréger sul rito quasi paneuropeo del camuffamento primordiale.
Le immagini del continente selvaggio oscillano tra estetiche minacciose e figurazioni buffe, tra la cupa evocazione della paura e i territori, opposti e complementari, del carnevale e del grottesco.
Si tratta, in ciascuno dei casi, di superfici che hanno spessore e importanza. Di apparenze che non ingannano, risalendo invece dalle più recondite e ancestrali profondità.