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Ugo Mulas

[…] Le stesse fotografie di Duchamp vorrebbero essere qualcosa di più di una serie di ritratti più o meno riusciti, sono anzi il tentativo di rendere visibilmente l’atteggiamento mentale di Duchamp rispetto alla propria opera, atteggiamento che si concretizzò in anni di silenzio, in un rifiuto del fare che è un modo nuovo di fare, di continuare un discorso.
Quando si fa un ritratto a una persona, si può assumere un’infinità di atteggiamenti verso questa persona e farle assumere un’infinità di atteggiamenti verso chi fotografa. Non c’è ritratto più ritratto di quello dove la persona si mette lì, in posa, consapevole della macchina e non fa altro che posare. Invece, solitamente, quando si dice che si vuole essere naturali non si intende essere naturali verso se stessi, ma essere naturali verso la macchina, cioè verso il fotografo, come per ingannarli, dire “io sono qui, ma fingo di non sapere che voi ci siete, così la mia finzione sarà più credibile”.
Invece fotografare uno mentre fa qualche cosa è registrare un fatto, quindi fare della cronaca. Il ritratto in un certo senso è qualcosa di più nobile, rispetto alla fotografia di cronaca, purché non ci sia nessuna reticenza, nessuna resistenza verso l’operazione nel suo insieme, che deve essere la più scoperta, la più diretta possibile. Però anche posare è un fare, in un certo senso: sicché se fotografavo Duchamp in posa arrivavo a un circolo vizioso. Comunque posare era l’atteggiamento più vicino al non fare, perché qualsiasi altra cosa Duchamp avesse fatto sarebbe stato qualcosa in più e qualcosa di troppo. I ritratti in casa o al museo non mi bastavano: l’ho voluto riprendere mentre camminava, perché mi sembra che il camminare sia l’atteggiamento del vivere più elementare, e fotograficamente più significativo, un fare sganciato dal produrre, l’atteggiamento più evidente del vivere e basta.
Ugo Mulas
(In Ugo Mulas. La fotografia, a cura di Paolo Fossati, Einaudi, Torino 1973)

[…] Io avevo in mente di fare una specie di studio accademico sul nudo, cioè di vedere come poter risolvere certi problemi: la posa, l’illuminazione del corpo; perché è molto difficile fare delle foto di nudo che non siano banali e urtanti per una ostentazione esibizionistica.
Non volevo fare dei nudi casti, nei quali non si vedessero i peli, o anche i pori della pelle; tutte queste cose danno consistenza, danno realtà al nudo e sono importanti. Volevo però per una prima volta provare a inserire nel rettangolo o quadrato che le due macchine fotografiche che io ho usato, la Hasselblad e la Nikon, mettono a disposizione, un corpo femminile, che cosa questo corpo poteva suggerirmi, quali emozioni nuove, perché raramente si contempla a lungo un corpo o un nudo come invece si contempla una faccia. […]
Avendo come modella una ragazza negra è stato inevitabile pensare a certi legni della scultura negra, dove il corpo viene così stilizzato e le cosce per esempio ingigantite che fanno da base spesso alla scultura. Cose che poi sono state riprese dagli artisti all’inizio del secolo fra cui Brancusi, Modigliani ecc. Quindi c’è un po’ anche questo ricordo ma non sempre. In altri casi le foto non hanno nessun riferimento di questo tipo.
In genere sono molto sensibile ai richiami di tipo culturalistico, però, a livello di consapevolezza, li rifiuto, cioè mi dà fastidio di ricorrere a questi stilismi.
Ugo Mulas
(In
Ugo Mulas. Immagini e testi, con una nota critica di Carlo Arturo Quintavalle, Istituto di Storia dell’Arte, Parma 1973)

(Pozzolengo, 1928 – Milano, 1973). La sua formazione di autodidatta si compie a contatto con l’ambiente artistico e culturale milanese dei primi anni Cinquanta. Dopo il debutto nel fotogiornalismo (1954) si impone rapidamente nei più diversi campi del professionismo italiano pubblicando in riviste come Settimo Giorno, L’Illustrazione Italiana, Rivista Pirelli, Domus, Vogue. In quegli anni lavora con il Piccolo Teatro di Milano, sviluppando una collaborazione artistica con Giorgio Strehler che proseguirà negli anni. Ugo Mulas fotografa le edizioni della Biennale di Venezia dal 1954 al 1972 e intraprende un’intensa collaborazione con gli artisti. In quegli anni la rappresentazione del mondo dell’arte diventa il principale progetto personale del fotografo. Ricordiamo tra l’altro le celebri serie su Alberto Burri (1963) e Lucio Fontana (1965) e il reportage a Spoleto per la mostra Sculture nella città (1962), dove si lega agli artisti David Smith e Alexander Calder. Dopo la rivelazione della Pop Art alla Biennale del 1964, Mulas decide di partire per gli Stati Uniti (1964-1967) dove realizza il suo più importante reportage con il libro New York arte e persone (1967). Gli incontri con Robert Rauschenberg, Andy Warhol e la scoperta della fotografia di Robert Frank e Lee Friedlander portano alle nuove ricerche della fine degli anni Sessanta e al superamento del reportage tradizionale. I grandi formati, le proiezioni, le solarizzazioni, l’uso dell’iconografia del provino, sono elementi che recupera dalle sperimentazioni pop e new dada e dalla pratica quotidiana del fotografare. Alla fine degli anni Sessanta partecipa al rinnovamento estetico e concettuale delle neoavanguardie collaborando a cataloghi e libri-documento. Di questo periodo il reportage sul decimo anniversario del Nouveau Réalisme (Milano, 1970), il progetto inedito su Vitalità del negativo (Roma, 1970) e almeno altri cinque libri: Alik Cavaliere (1967), Campo Urbano (1969), Calder (1971), Fausto Melotti: lo spazio inquieto (1971) e Fotografare l’arte (1973). La crisi del reportage, ormai superato dal mezzo televisivo, porta Mulas a uno straordinario lavoro di ripensamento della funzione storica della fotografia: una riflessione estetica e fenomenologica che conduce al portfolio Marcel Duchamp (1972) e al progetto Archivio per Milano (1969-72). Sono gli anni che vedono anche la nascita delle Verifiche (1968-1972), una serie fotografica che sintetizza in dodici opere la sua esperienza e il suo dialogo continuo con il mondo dell’arte. Opera cardine della ricerca fotografica del periodo, le Verifiche sono l’ultimo lavoro del fotografo che proprio in quel periodo si ammala gravemente. Morirà il 2 marzo 1973, un mese prima dell’apertura della sua retrospettiva all’Università di Parma e dell’uscita del suo libro-testamento, La fotografia.

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a cura di Giovanna Calvenzi
17.5 > 2.10.2013